
Uno strano destino quello di questo insolito palazzo che svetta, bianco e composto, nell’ansa della seconda curva del Canal Grande. Nacque dalla fervida fantasia di un pittore toscano, Sebastiano Mazzoni, che lo disegnò per il suo committente Pietro Liberi, noto pittore anche lui, e, seguendo la ferrea legge dei corsi e ricorsi storici, non ha mai smesso di attirare, per l’appunto, pittori: ai primi dell’Ottocento fu abitato da Francesco Hayez, uno dei più geniali pittori veneziani del XIX secolo, il quale qui condusse molta parte della sua vita di donnaiolo e gaudente; più tardi, verso la metà di quello stesso secolo vi risiedette anche Lodovico Lipparini, noto per i suoi ricercati ritratti e per i dipinti ispirati alla ribellione e alla lotta contro i turchi e che in queste sale teneva accademie frequentate da artisti e letterati italiani e stranieri. Non meno movimentata era stata la vita del primo proprietario, il cavalier Pietro Liberi, nato a Padova e poi, giovanissimo, trasferitosi a Costantinopoli e a Mitilene, dove era stato fatto schiavo dagli ottomani. Fuggito, era stato a Malta, in Sicilia, a Lisbona, in Spagna e in Francia, arrivando finalmente a Roma dove visse per tre anni. Tornato a Venezia, vi ebbe grande fortuna e successo, riuscendo a guadagnare molto denaro e fu proprio nella città lagunare che fondò il Collegio dei Pittori poi destinato a fondersi con l’Accademia.Il palazzo, noto come “il palazzo delle tredici finestre”, fu eretto nel 1670 dalla fusione e dalla ristrutturazione di due preesistenti palazzi gotici che furono raccordati dallo spazio occupato dalle grandi finestre centrali. Il Mazzoni, estroso e collerico pittore e poeta, allievo del Bronzino e costretto a fuggire da Firenze per le sue satire pungenti nei confronti dei potenti, disegnò questo palazzo probabilmente ispirandosi al brunelleschiano palazzo Pitti di Firenze, improntandolo ad un’ortodossa classicità anche se ormai, in quegli anni, si era già affermato il barocco con l’opera del Longhena. Fu giocoforza che, proprio mentre a Venezia andavano affermandosi le nuove direttive architettoniche del Borromini, questo edificio apparisse subito di gusto antiquato, lungo e basso com’è e col porticato dotato di un loggiato per il carico e lo scarico delle merci, proprio come i più antichi palazzi veneziani.
La facciata è completamente mossa dal bugnato che viene interrotto dal finestrato ad arco a tutto sesto continuo e ritmato dai pilastri lesenati con capitelli ionici e dorici ed è resa insolita dalla grande finestra centrale che insiste sul piccolo arco del porticato, mentre le finestre laterali sono impostate a coppia su ciascuno degli archi del pianterreno. Tutti gli elementi della più tipica classicità sono qui evocati: i lineari marcapiani sulle finestre, le metope e i triglifi, i capitelli, tutto riporta improvvisamente l’orologio dell’architettura indietro di secoli.
Morti il Liberi e il Mazzoni, nel 1691 la costruzione fu rilevata dalla famiglia Lin, droghieri originari di Bergamo ed entrati a far parte del patriziato dal 1686. In occasione del matrimonio fra Gaspare Moro e Isabella Lin, fu aggiunto, agli inizi del Settecento, un altro piano che ha stravolto le dimensioni originarie della fabbrica, snaturandone il carattere di struttura totalmente eccentrica nel panorama lagunare. A quegli anni risalgono le notevoli decorazioni interne che vennero ad aggiungersi a quelle già eseguite a suo tempo dal Liberi: furono chiamati Antonio Bellocci e Luca Carlevarijs nel Settecento e Pietro Moro e Carlo Bevilacqua nell’Ottocento. Di quest’ultimo rimane il bel soffitto del salone centrale eseguito nel 1806 e raffigurante le allegorie della Gloria e della Fama. Attualmente il palazzo, frazionato in vari appartamenti, ospita un condominio.
