Ca  Farsetti (Municipio) Già ad una prima, sommaria osservazione, è possibile notare quanto questo antico edificio somigli moltissimo a quel­lo adiacente, ossia il palazzo Loredan, insieme al quale ospita le sedi degli uffici municipali e costituisce, inoltre, una sorta di continuum veneto-bizantino. Ca’ Far­setti si segnala, senza dubbio, fra le più antiche costruzioni veneziane, in quanto ri­salente al XII o XIII secolo, e per molti anni la tradizione vi ha voluto individuare la magnifica dimora del grande doge Enrico Dandolo che capitanò la IV Crociata e che, nel 1204, conquistò Costantinopoli (ma a sostegno di tale ipotesi non vi è alcun ri­scontro documentale). Della “magna domus” di Enrico Dandolo molto si è favo­leggiato, immaginandola di vastissime proporzioni e adorna di magnifici marmi gre­ci appositamente inviati a Venezia da Costantinopoli appena conquistata, ma non esiste tutt’oggi alcuna certezza sulla sua precisa ubicazione. Di certo Ca’ Farsetti era ap­partenuta alla grande famiglia Dandolo (una delle “case -inteso come famiglia- vecchie”, tradizionalmen­te chiamate “apostoliche” in quanto sarebbero state le dodici che elessero il primo doge ad Eraclea nell’anno 697), discendente, secondo una leggenda, da una stirpe molto antica, gli Ipati o Dauli, e che, anche senza queste filiazioni leggendarie, era di sicuro una casata più che illustre, avendo dato alla Serenissima quattro dogi (En­rico, Andrea, Francesco e Giovanni), dodici Procuratori di San Marco e un patriar­ca di Grado. Intorno alla metà del XIV secolo ne fu proprietario Andrea, salito al so­glio dogale nel 1343, che vi abitò fino alla morte e lo lasciò in eredità al figlio pri­mogenito Fantino; Andrea era un fine umanista, storico e giurista di grande cultu­ra, amico di Francesco Petrarca e la sua figura è sicuramente una delle più impor­tanti tra quelle che rivestirono le insegne dogali. Anche i suoi figli, il già citato Fan­tino e Leonardo, nati dal suo matrimonio con Francesca Morosini, furono degni del la fama del padre: il primo fu un valente scrittore e uomo di cultura e il secondo si distinse come fine diplomatico.

Nei primi anni del Cinquecento i discendenti di Leo­nardo ancora abitavano nel palazzo che, nella notte del 3 dicembre 1524, fu in par­te distrutto da un incendio che causò ingentissimi danni. Riparato, dopo varie peripezie, nel 1664 esso fu venduto alla famiglia Far­setti, di origine toscana e aggregata in quello stesso anno al Maggior Consiglio. Di certo i Farsetti erano meno illustri e di origini meno antiche della famiglia che li aveva preceduti ma certo erano ricchissimi e molto impegnati sul fronte della cultura: l’abate Filippo Vincenzo Farsetti, per esempio, fondò una scuola per gio­vani scultori e creò per i più bravi fra loro un premio di merito: pro­prio uno di quei valenti giovani fu Antonio Canova. Qui il giovanissimo Canova apprese a scolpire e per esprimere la sua gratitudine donò al Farsetti i suoi lavori giovanili: due ceste di frutta in marmo ora al Museo Correr. Ma questo palazzo fu pure celebre per una Accademia fondata dai suoi proprietari e che in origine era nata sempli­cemente per scherzo. Il senatore Daniele e suo fra­tello Tommaso, cugini di Filippo, avendo ascoltato nel 1747 un sermone molto ridicolo nel convento di San Domenico, pensarono di giocare una burla al presuntuoso predicatore. Si fecero presentare a lui e gli dissero che la sua oratoria li aveva talmente col­piti da spingerli a fondare un’Accademia letteraria, offrendogli di divenirne il capo. Era però necessario che egli si recasse al caffè Menegazzi, dove i congre­gati abitualmente si raccoglievano, affinché anche gli altri soci potessero giudicare il suo ingegno. Fu così che l’ignaro e vanitoso Giuseppe Sacchellari recitò i suoi versi in quel locale pubblico, fra il divertimento generale, e si vide eleggere principe “Arcigranellone” dell’Accademia dei Granelleri, la cui insegna mostrava un gufo che teneva saldi fra gli artigli due... “granelli” (testicoli).
Ben presto l’Accademia, nata in quel modo divertente, divenne un centro letterario di prim'ordine e tale restò fino al 1761, quando passò ad altra sede. Il figlio di Daniele, Antonio Francesco, diverso dai suoi avi, chiuse la galleria nel 1778, si caricò di debiti e finì per alienare tutte le opere d’arte contenute nel palazzo. Benché fosse anche lui uomo di lettere e coltivasse l’arte della botanica, dissipò in poco tempo tutto il patrimonio familiare. Morto il padre, egli vendet­te tutta la sua preziosa biblioteca e avrebbe venduto anche il museo di famiglia se la Repubblica non glielo avesse impedito (caduta la Repubblica, egli comun­que ne donò gran parte allo zar di Russia Paolo I); dopo aver svenduto a poco prez­zo i preziosi quadri della pinacoteca, morì in completa miseria nel 1808, nella lon­tana Russia. Il palazzo fu acquisito allora dalla sua vedova, Adriana Da Ponte, come creditrice della propria dote dissipata. Ella lo affittò ad uso albergo fino a quando, nel 1826, fu acquistato dal Municipio per farne la propria sede. Molti interventi di restauro vennero eseguiti dopo quegli anni: in particolare nel 1874 venne risistemato l’aspetto generale dell’edificio e nel 1892 venne aggiunto l’ul­timo piano, e tutti questi rimaneggiamenti hanno sicuramente intaccato lo stile originario di questa costruzione che oggi presenta nella facciata una straordina­ria sequenza di colonnine binate che la attraversa tutta, e che sostiene gli armonici archi rialzati, il tutto sottolineato da un poggiolo continuo. In questo balcone ogni coppia di sposi, appena pronunciato il fatidico “sì”, si fa fotografare con alle spalle il Ponte di Rialto, così come vuo­le la tradizione.
Il carattere tipico della casa-fondaco si osserva soprattutto nel pianterreno porti­cato (ciò permetteva lo scarico e il carico delle merci in maniera più agevole), che è sicuramente la parte più antica del palazzo, insieme al piano nobile. Entrambe conservano, con sufficiente leggibi­lità, proprio i caratteri tipici dell’architettura veneziana duecentesca, mentre le aggiunte ottocentesche, pur se nel rispetto dell’equilibrio generale del palazzo, hanno reinventato uno stile che appare stonato e poco credibile.