Casetta Dandolo In questo sito sorgevano un tempo le case dei Dandolo i cui giardini si estendevano sino al campo San Luca. Di esse rimane questo bel palazzetto gotico trecentesco, la cui stretta facciata è interamente occupata dal portico architravato al pianter­reno e dalle belle quadrifore ad archi trilobati su pilastri e colonnine alternati dei piani superiori. Venne sopraelevato in epoca successiva.
Qui nacque il formidabile doge Enrico Dandolo (1108-1205), e qui si trasferì nel 1551 Pietro Aretino, rimanendovi fino alla morte, avvenuta nel 1558 per colpo apoplettico causato, dissero i maligni del tem­po, dalle sue smodate risa a una storiella salace.

I Dandolo, che oggi sembra siano estinti nel ramo dogale, furono una delle più antiche, prestigiose famiglie, tanto che nel V secolo è ricordato un vescovo di Padova con questo nome. Fu pure una delle dodici famiglie «apostoliche» e influenzò gran­demente le sorti della nascente Repubblica tramite uomini forti, di grande animo e quattro dogi nel breve arco di 150 anni, dal 1192 al 1345. Poi, inspie­gabilmente, pur continuando a fornire alla Serenis­sima valenti servitori, subì un progressivo declino. Tutti e quattro i suoi dogi, Enrico (1192-1205); Gio­vanni (1280-1289); Francesco (1329-1339), e Andrea (1343-1354), furono uomini di aspetto avvenente (tanto che Isabella Fieschi, moglie di Luchino Visconti duca di Milano, in visita a Venezia nel 1347, si era innamorata perdutamente del doge Andrea, allora quarantenne), di corporatura robusta, carattere di ferro, valorosissimi guerrieri, abilissimi e astuti diplomatici. Tuttavia è senz’altro Enrico il più famoso: fu infatti il più fortunato nelle armi, e il destino gli fornì superbe occasioni che egli non si lasciò certo sfuggire.
Nato nel 1108, in gioventù era stato Bailo a Costantinopoli dove il Basileus Manuele Comneno, risentito per la ferma dignità con la quale egli richiedeva il rilascio di alcuni veneziani, aveva ordinato che fosse abbacinato. Nel tentativo di sot­trarsi a questa forma di accecamento che gli rovinò la vista, Enrico ebbe pure una ferita al capo. Eletto doge nel 1192, fra altri provvedimenti, fece coniare il “matapan” o grosso, la prima moneta d’argento con l’effigie di San Marco (sotto il doge Giovanni, invece, s’iniziò a coniare il famoso ducato d’oro o zecchino veneziano: marzo 1285, quasi un secolo dopo). E fu a questo punto che i nobili franchi indissero la quarta Crociata. Essi mandarono messi a Venezia chiedendo di essere trasportati per nave ai luoghi santi.
Venezia, che non rifiutava di trattare qualunque affare le capitasse, acconsentì. L’accordo raggiunto imponeva ai crociati di pagare una somma in quattro rate, più la cessione di metà del bottino; la Serenis­sima, dal canto suo, si impegnava a provvedere navi­gli per il trasporto di 9000 cavalli e di circa 40.000 uomini col loro bagaglio ed equipaggiamento, a provvedere per nove mesi al loro mantenimento, e a contribuire inoltre con un certo numero di armati; il tutto appoggiato da navi da guerra. La flotta sarebbe stata comandata dal doge in persona. Allora i cro­ciati confluirono verso Venezia, furono sistemati nel­l’isola del Lido e le navi approntate. Ma al momento dell’imbarco i crociati non poterono pagare la somma pattuita. Allora il doge, che si aspettava que­sto fatto, lanciò una proposta spregiudicata: la Repubblica avrebbe accettato di accollarsi l’intero onere della spedizione se i crociati avessero accettato di aiutarla a sottomettere le città della costa dalmata che si erano ribellate. Zara fu la prima. Conquistata la città, quando le navi stavano per salpare, il figlio del Basileus spodestato, Isacco Angelo, venne a supplicare il doge di aiutare suo padre a riconquistare il trono, promettendo che se ciò fosse avvenuto la Chiesa greca si sarebbe riunita a quella latina. Però quando il Basileus fu ristabilito sul trono, la popolazione greca si ribellò ed i patti non vennero rispettati. È difficile pensare che delle questioni religiose avessero così tanto peso sulla coscienza di un uomo della tempra del Dandolo, ma ciò gli fornì un’ottima scusa per poter regolare quel conto aperto negli anni ormai lontani che la quasi cecità non gli permetteva di dimenticare. Fu così che nel 1204 egli scagliò verso le 400 torri di Costantino­poli la valanga irresistibile dei crociati.
Non solo, egli stesso, quasi centenario ma ancora robustissimo e con una volontà indomita, scese a terra coi combattenti impugnando il vessillo di San Marco. Dopo la caduta della città e quindi dell’Im­pero, i crociati si divisero fra loro le terre e offrirono al doge la corona imperiale che egli rifiutò. In sua vece salì poi al trono di Bisanzio Baldovino di Fian­dra. Ma il bottino che il doge ottenne fu colossale, inverosimile; oltre ai 3/8 della stessa città di Costan­tinopoli, egli annetteva a Venezia l’Acarnania, l’Etolia, le isole Jonie, le Cicladi, le Sporadi e molte altre terre e isole di capitale importanza, il cui assesta­mento richiese molto tempo e permise a Venezia, non solo di chiamarsi «Signora della Quarta parte e mezza dell’Impero Romano d’Oriente», ma altresì di espandere enormemente i suoi mercati e di mante­nere per secoli la supremazia commerciale nel Levante. Inoltre acquistava dal marchese di Monfer­rato l’isola di Candia. Le navi che ritornarono a Venezia portarono immensi tesori di gemme pre­ziose e perle, oggetti d’arte inimmaginabili, come i  quattro cavalli di San Marco, tessuti pregiati e rari, quasi 400.000 marchi d’argento, 12.000 libbre d’oro e oltre 50.000 libbre d’argento. Mai prima di Enrico Dandolo s’era veduto, né dopo di lui si vedrà più, alcunché di simi­le. Il doge però volle rimanere a Costantinopoli, sia per combattere i bulgari, che avevano attaccato quelle zone, sia per organizzare l’amministrazione e la difesa delle nuove terre acquisite. Là egli morì nel giugno del 1205 all’età di 97 anni.

E per bilanciare i tempi eroici e duri dei dogi Dandolo, passiamo a cose più mondane. Nella Vene­zia del Settecento, in quella Venezia che ormai aveva perduto tutti i suoi mercati e possedimenti nel Levante, occupati dai turchi, che stava ripiegandosi su se stessa vivendo di quanto aveva accumulato nel suo millennio di attività, la moda diveniva sempre più complicata e bizzarra cosicché correvano satire velenose e sferzanti contro la smoderatezza delle signore. Una satira anonima del 1768 descrive così Elisabetta Maffetti-Dandolo:

«L’abito a campana
tabarro a la romana
il passo alla levriera (saltellante)
il petto a l’ermofrodita (senza busto)
le mani a la romita (incrociate e floscie)
i bracci a la lavandera (nudi)
il corsero a la cerviera (colletto altissimo)
il cappello a la colombina (piumato) la coazza da regina (lo strascio)
i denti mascarati (imbiancati) gli occhi ben marcati
il sentar da sultana (sedersi a gambe incrociate) tutto il resto da p...».

Niente di nuovo sotto il sole.