Palazzo Labia Questo grandioso edificio, tra i più fastosi palazzi privati costruiti a Venezia nel Settecento, domina in modo davvero suggestivo e scenografico gran parte dell’a­rea sita alla confluenza del rio di Cannaregio nel Canal Grande.
Non si conosce con certezza l’autore del progetto, per il quale, infatti, si fanno i nomi di due ar­chitetti: Andrea Comincili e Alessandro Tremignon. In realtà sembra che il palazzo sia stato iniziato da Paolo Tremignon, figlio del più noto Alessandro e architetto anch’egli, e poi terminato dal Cominelli. Costruito secondo modi tardobarocchi durante la seconda metà del XVII secolo e giunto a definitivo compimento nella prima metà del XVIII secolo, è uno dei rari palazzi veneziani a tre facciate: una che guarda il Canal Grande, una che insiste su Campo San Geremia e infine una sul rio di Cannaregio, tutte rivestite da grossi blocchi di pietra d’Istria e ador­nate in modo davvero fastoso. In particolare la composizione delle facciate sul Ca­nal Grande e sul rio di Cannaregio denunciano una certa inclinazione per il decora­tivismo di ispirazione longheniana, vuoi per la ricchezza delle sculture che per la grande eleganza dei capitelli; esse presentano un ordine dorico a bugnato liscio e due ordini di lesene ioniche e corinzie ai piani superiori. Fra le lesene trovano spa­zio finestroni arcuati e balconi. Negli attici, tra finestra e finestra, sono scolpite le aquile araldiche, simbolo della famiglia Labia. Per la facciata più sobria e raffi­nata che insiste sul campo San Geremia e parte dell'ultimo ampliamento della fab­brica, si è pensato al nome di Giorgio Massari quale autore.

I Labia, ricchissimi mercanti provenienti dalla Catalogna, furono iscritti al pa­triziato veneziano nel 1646, anno in cui fu aperto il libro d’oro della nobiltà, do­po aver versato nelle casse della Serenissima ben trecentomila ducati per il so­stegno della guerra di Candia. Tempi duri, quelli: c’era stata una terribile epide­mia di peste che, negli anni Trenta aveva ridotto la popolazione di un terzo e nel Quarantacinque gli Ottomani avevano attaccato le truppe veneziane per il domi­nio di Creta.
Molte leggende vengono narrate su questa famiglia dalla proverbiale ricchezza: famosissimi sono i racconti secondo i quali i Labia, alla fine dei tanti sontuosi banchetti che tenevano a palazzo, usavano lanciare tutto il vasellame d’oro e d’ar­gento, utilizzato per la cena, nel Canal Grande gridando: «L’abia o no l’abia, sarò sempre Labia». La proverbiale arguzia del popolo veneziano suggeriva, però, che all’indomani i servi recuperassero con molta facilità tutti gli oggetti perché vi era una rete che veniva preventivamente stesa sotto il pelo dell’acqua del canale. Per costruire e abbellire questo vero e proprio gioiello architettonico, i Labia spe­sero somme favolose: meravigliosi affreschi, riportati a nuova vita da accurati re­stauri e che si possono ancora oggi ammirare, adornano le bellissime sale dai no­mi evocativi (sala dello Zodiaco, sala del Trionfo, sala di Venere e Marte, sala de­gli Specchi, sala dell’Aurora, per citarne alcune). Ma su tutte le opere d’arte do­mina lo splendore inarrivabile degli affreschi di Giambattista Tiepolo che, nella seconda metà del Settecento, dipinse sui soffitti del salone da ballo e delle due stan­ze adiacenti Zefiro e Flora, Bacco e Arianna e le famosissime Storie di Antonio e Cleopatra, un ciclo davvero fondamentale del grande artista. Le scene di que­sti affreschi hanno la singolarità di essere inquadrate in finte architetture trompe- l’œil eseguite dal ferrarese Girolamo Mengozzi Colonna, fidato collaboratore del maestro. Tiepolo eseguì, in questi ambienti, una delle più eccelse opere del Set­tecento veneziano: nei 500 mq complessivi di pittura a fresco, egli pare ispirarsi alla grande stagione cinquecentesca della pittura veneziana, per la sontuosità qua­si veronesiana dei costumi, la ricchezza delle armature e la complessità delle ar­chitetture. Colpisce soprattutto la figura altera e nobile di Cleopatra che si dice sia stata ispirata all’artista da Maria Labia, moglie del suo committente Giovanni Fran­cesco II Labia, della quale, “vox populi“ racconta, egli era segretamente innamora­to; maestoso, nell’atteggiamento di un imperatore, ci appare, invece, Antonio. Os­servando bene gli affreschi, vi si può scorgere lo stesso autore che si è raffigura­to nel Banchetto seduto e di profilo, con accanto l’amico di sempre Mengozzi, con gli occhi un po’ spiritati e il naso affilato e aquilino.

Questo inestimabile patrimonio ha rischiato seriamente di scomparire quando, nel­le vicinanze dell’edificio, durante la seconda guerra mondiale, si verificò la de­flagrazione di una chiatta piena di esplosivi: l’evento, come si può ben immagi­nare, danneggiò molto seriamente gli affreschi tiepoleschi. Si deve soprattutto al grandissimo impegno della Rai, che negli anni Sessanta del Novecento acquistò il palazzo per porvi la propria sede, se oggi questi capolavori sono ancora godi­bili. In quell’occasione, infatti, furono eseguiti restauri accurati che portarono al recupero non solo delle decorazioni interne, ma anche dell’intera struttura che in quell’epoca era rovinosa e fatiscente, avendo patito l’onta di una serie di eventi che ne avevano compromesso la bellezza e la staticità.
Quando la famiglia Labia cominciò a conoscere le amarezze della decadenza, do­po circa un centinaio di anni vissuti alla grande, tra sfrenatezze eccentriche e lus­si folli, il palazzo fu venduto ad un principe Lobkowitz agli inizi dell’Ottocen­to, passando subito dopo ancora di mano, per essere venduto alla benefica pia fon­dazione israelitica Kònigsberg che lo divise in appartamenti da affittare. Nel 1885 il piano nobile fu occupato da ben cinquanta telai a mano per produrre stoffe, men­tre all’ultimo piano vi era una segheria. Dopodiché, rifiutato dal Comune al qua­le era stato offerto, aveva ospitato una scuola ed era diventato addirittura un gran­de condominio popolare. Qualche veneziano di non più verde età ancora si ricorda delle popolane che stendevano il bucato dalle finestre del salone da ballo; qual­cuno dice che un filo del bucato fosse stato addirittura fissato sulla punta del na­so di Cleopatra. In seguito il palazzo fu acquistato da un certo Natale Labbia, un anonimo commerciante di grano nominato principe dal regime fascista, il quale lo aveva comprato con il desiderio di vivere nella ca­sa che era stata di coloro che riteneva essere i suoi antenati. Fu poi la volta del petroliere messicano Charles de Beistegui che lo acquistò e diede l’avvio ad un primo restauro terminato il 3 settembre del 1951, in occasione dell’apertura del­la Biennale. Fu proprio in quella data che a palazzo Labia si tenne quella che è rimasta celebre come la festa del secolo: tutto il jet-set internazionale si ritrovò a danzare nei magnifici saloni in abito settecentesco. Fra di loro l’Aga Khan e la Begum, Winston Churchill, Orson Welles e Salvador Dalì. Diventato vecchio, stan­co della vita mondana, de Beistegui si ritirò nel suo castello di Monfort, in Fran­cia, mettendo all’asta, nel 1964, il palazzo che fu aggiudicato alla Rai per 350 mi­lioni. L’ente statale dette l’avvio, come già accennato, ad un radicale restauro, ese­guito con metodiche tecnologicamente avanzate, riuscendo a recuperare totalmente questo che è ridiventato il gioiello di un tempo, vero fiore all’occhiello di que­sta azienda televisiva pubblica. Attualmente il piano nobile è affidato alla gestione di Rai Trade ed è aperto al pubblico per iniziative culturali e cene di gala.