Palazzo Coccina Giunti Foscarini Giovannelli Posto alla confluenza del rio della Rioda, il palazzo, databile verso la metà del XVI secolo, dispiega sul Canal Grande una facciata resa asimmetrica da un'aggiunta a sinistra e ciononostante ben definita dal gioco delle aperture che si addensano attorno all'asse principale, costituito dal portone d'ingresso e dalla soprastante serliana affiancata da monofore. Allungati modiglioni sorreggono i davanzali delle finestre, centinate e con rilevate chiavi d'arco quelle del piano nobile, rettangolari le altre.
Fu fatto costruire dalla famiglia Coccina, passato poi in altre mani e infine a Tommaso Giunta di origine fiorentina il quale, avendo maritato due figlie a due fratelli, Nicolò e Renier Foscarini, lasciò a questa famiglia tutte le sue proprietà, incluso il palazzo. Le pareti dello splendido cortile furono dipinte da Gian Battista Zelotti. Dice un cronista del 1760 che vi si vedeva pure «una bella figura che sta a sedere a una finestra in atto di suonare il liuto». Per i pregi della sua raffinata architettura, ricca di marmi policromi, e per le sue vaste proporzioni, il palazzo in molte occasioni ospitò illustri visitatori della Repubblica, come Federico Cristiano IV di Danimarca, in onore del quale nel 1709 il proprietario, il procuratore di San Marco Sebastiano Foscarini, diede una straordinaria festa da ballo rimasta famosa per il suo sfarzo, testimoniando di quale prestigio e autorità godesse ancora a quell'epoca la famiglia. Nel 1755 il palazzo fu preso in affitto dai Giovanelli.

I cronisti raccontano che la famiglia Foscarini si era stabilita a Venezia nell'867, che ebbe vasti interessi nel Levante e annoverò fra i suoi membri valenti politici, guerrieri e letterati. La loro famosa biblioteca andò dispersa nel secolo scorso, all'estinzione della famiglia.
Tristemente famosa è la sorte toccata ad Antonio (1570-1622), brillante diplomatico, che era stato a lungo ambasciatore in Francia e Inghilterra dove, per le sue alte doti, gli era stato concesso di aggiungere al suo stemma i simboli nobiliari di quelle due nazioni. Era questo, però, un periodo di gravi tensioni politiche: la Spagna aveva posto gli occhi sulla piccola Repubblica la quale, sospettosa, guardinga e fieramente indipendente in un'Italia quasi tutta asservita a stranieri, difendeva con ogni mezzo la sua libertà. Nel 1618, per puro caso e appena in tempo, essa era riuscita a stroncare una congiura ordita dal duca di Ossuna, spagnolo, intesa a far perire nel rogo di Palazzo Ducale tutto il Gran Consiglio. Perciò, quando un dipendente del Foscarini accusò il padrone di recarsi di notte in gran segreto in un palazzo noto per le riunioni di forestieri, fu senz'altro ordinato il suo arresto. La sua innocenza venne provata dopo una severa e rapida inchiesta: il Foscarini uscì di prigione e l'accusatore mandato in esilio. Ma la vicenda non era finita.
Gli amici del delatore seppero architettare un'accusa ancora più infamante: quella della divulgazione dei segreti di stato, e Antonio, che non fu in grado di giustificare la presunta fuga di documenti a lui affidati, venne condannato a morte come traditore.
In quella occasione si era anche sussurrato il nome, quale implicata, dell'autorevole lady Anna Shrewsbury, moglie del maresciallo d'Inghilterra conte Tommaso di Arundel of Wardour, il cui salotto a palazzo Mocenigo era frequentato da diplomatici e artisti veneziani e stranieri. Nel giorno in cui fu emanata la sentenza di morte, la nobildonna stava recandosi in una sua villa di Padova, quando un messaggero dell'ambasciatore britannico Wotton le portò la notizia dell'accaduto insieme con il consiglio di mettersi in salvo oltre i confini. La dama, invece, diede ordine al cocchiere di voltare i cavalli e ritornare a Venezia, dove chiese e ottenne udienza dal doge; si mise a disposizione degli inquisitori e chiarì pienamente la sua posizione testimoniando, inoltre, che il Foscarini era un amico e non una spia. La Serenissima ritenne valide le spiegazioni e ordinò all'ambasciatore veneziano a Londra di riferire a quella corte che la Signoria riteneva lady Arundel assolutamente estranea ai fatti. Purtroppo, però, i documenti non erano stati ritrovati e il Foscarini capì che la condanna sarebbe stata eseguita. Valendosi del suo privilegio di patrizio, chiese di essere strangolato in carcere e non in pubblico. Tuttavia, secondo l'uso, il suo corpo venne poi appeso per una gamba alla forca eretta fra le colonne di Marco e Todaro in Piazzetta San Marco.
Non erano trascorsi molti mesi da questo dramma quando, in seguito al mormorio della gente che riteneva Antonio incapace di commettere un simile misfatto, gli inquisitori riesumarono il caso, lo ristudiarono con cura, ordinarono l'arresto di tre dipendenti del Foscarini ed ebbero la certezza che essi avevano falsificato le prove contro il loro padrone quando i documenti scomparsi furono ritrovati nell'abitazione di uno di loro. I tre furono giustiziati e la memoria di Antonio solennemente riabilitata. Il Consiglio dichiarò pubblicamente il suo errore, fatto eccezionale per quei tempi, poi consegnò la copia originale del decreto di riabilitazione ai due nipoti del Foscarini e diede la massima diffu-sione a tale decreto, inviandolo a tutte le corti europee. La salma del Foscarini fu traslata con onori solenni a Santa Maria Gloriosa dei Frari e per ricordare l'accaduto fu murata, sopra al monumento funebre della famiglia in San Stae, una lapide con una scritta che liberava il patrizio dall'accusa di tradimento. Da allora il prestigio e l'autorità della famiglia non declinarono mai.
Marco (1762-1763) fu il quart'ultimo doge di Venezia. Anch'egli era stato a lungo ambasciatore in varie corti d'Europa ed era un illustre e colto letterato. Morì un anno dopo la sua elezione ma pur in così breve tempo riuscì a dimostrare le sue grandi doti politiche.
Uno dei Foscarini ebbe la ventura di sposare una Sanudo, nipote del celebre cronista Marin. Nel 1525 essa fu la prima ad adottare la moda degli orecchini. Ciò dispiacque al cronista il quale ci lasciò scritto che fra le donne intervenute ad una festa di nozze c'era pure «la figlia di Filippo... la quale ha il costume dei mori: si è fato forar le orecchie e con un aneleto d'oro sotil portava una perla grossa per banda, cossa che lei sola porta, e mi dispiace assai». Nonostante il suo dispiacere, l'usanza degli orecchini si diffuse e si radicò.