Ca Vendramin Calergi (Casinò di Venezia) Un’aura di equilibrata serenità avvolge questo splendido edificio che pare quasi recare incise nella propria pietra, precorrendole, tutte le qualità e le caratteristi­che che avrebbero accompagnato “l’homo novus“ nel secolo del Rinascimento che appunto in quegli anni vedeva la propria alba. Un uomo pervaso dal desiderio di codificare le regole della bellezza e quelle dell’arte, dall’aspirazione verso un nuo­vo tipo di conoscenza, più razionale e scientifica, meno debitrice di credenze e superstizioni quale era stata, invece, la costruzione gnostica medievale. Rigore geometrico, armonia delle linee e delle forme, la bellezza nitida che si esprime solo attraverso la sinfonia della composizione dei volumi e della materia: questo è inciso nelle pietre di Palazzo Vendramin Calergi.
Possente e al tempo stesso armoniosamente aereo è il primo edificio costruito “alla moderna” sul Canal Grande, in un periodo che precede quello delle grandi fabbriche sansoviniane e ciò che lo rende davvero particolare è la sovrapposizione di tre ordini strutturati per inquadrare bifore a tutto sesto, insieme alla riproposta dell’arco trionfale (nel binato delle campate estreme). La grandiosa facciata, in piena ar­monia con le elaborazioni che in quel tempo andavano sperimentandosi a Roma sul tema degli edifici privati, si armonizza però su una pianta tradizionale, con i saloni cosiddetti “a crozzola”, ossia con impianto pianimetrico a forma di T, ai quali si affiancano sale secondarie più piccole. I finestroni, composti da due fi­nestre ad arco a tutto sesto raccordate da un più grande arco con occhio rotondo al centro, somigliano molto a quelli di Palazzo Corner Spinelli, antecedente di circa un ventennio, mentre le snelle colonne con capitelli corinzi ritmano la fac­ciata donandole un rilievo plastico discreto ed elegante.
Esso fu commissionato verso la fine del XV secolo dai Loredan al famoso architetto Mauro Codussi. Fu la sua ultima opera, portata poi a compimento nel 1509, cioè cinque anni dopo la sua morte, dalla bottega dei Lombardo. Lungo i suoi tre piani i grandi finestrati dispiegano la grazia dello stile lagunare nelle grandi bifore raccolte da un’arcata, trasfigurando il gotico fiorito nell’ampio ritorno armonico delle linee classiche, impreziosite dalla decorazione cromatica dei marmi, secondo l’uso quattrocentesco.
Particolare, per l’epoca, è anche il rive­stimento in pietra d’Istria che ricopre tutta la facciata al posto dei mattoni a vi­sta o intonacati, com’era uso comune allora. Anche l’utilizzo degli elementi de­corativi appare nuovo: essi sono subordinati allo schema architettonico e raffi­gurano ghirlande, panoplie e protomi leonine e risultano simili a quelli usati nel­lo stesso periodo lungo la facciata orientale del Palazzo Ducale, mentre era do­ge proprio un Loredan, ossia Leonardo. Famoso, attraverso i secoli, rimase il cor­nicione di questo edificio, decorato con rilievi di aquile, unicorni e scudi con le sei rose, simbolo dei Loredan, sculture forse in origine legate fra di loro da af­freschi oggi scomparsi.
Il piano terra è scandito dalle lesene che affiancano i due finestroni e il bel por­tale d’acqua, e appena sotto le finestre del mezzanino è incisa l’iscrizione "Non nobis, Domine, non nobis", estratta dal salmo biblico 113,9 e voluta dallo stesso Andrea Loredan come atto di umiltà verso Dio. Nell’atrio si potevano ammira­re un tempo grandiosi affreschi del Giorgione (la Diligenza e la Prudenza) oggi andati perduti.

Ricchezza e orgoglio, caratteristiche dei Loredan, non potevano che trovare espressione in questa superba dimora, voluta proprio per esprimere al massimo i segni della potenza di questa famiglia di cui Andrea fu certamente un esponente “particolare”, vuoi per il suo carattere orgoglioso che per la sua proverbiale su­perbia. Senatore nel 1494, Savio di Terraferma nel 1502, Podestà a Brescia ne­gli anni 1503-1504, egli morì in una battaglia contro gli spagnoli a Creazzo nel 1513 e addirittura il suo cadavere venne decapitato da due soldati mentre se ne disputavano il corpo. Ma fu anche un raffinato umanista, protettore e amante del­le arti e profuse nella fabbrica del palazzo molte energie e ingenti capita­li. Nel 1581 gli eredi vendettero il palazzo al duca di Brunswick e dopo alcune traversie legali, nel 1589, fu acquistato da un ricchissimo nobiluomo, Vettor Calergi, appartenente ad una grande famiglia feudale cretese che aveva spesso, in passato, fomentato rivolte e conflitti contro la Serenissima, la quale aveva la si­gnoria sull’isola. Finalmente aggregata al patriziato veneziano nel 1299, questa famiglia continuò però a creare problemi alla Repubblica, tanto che nel 1572 il capitano generale dell’isola, Marino Cavalli, aveva dovuto far uccidere Matteo Calergi, giustificando l’atto in nome della ragion di Stato. Vettor era il figlio di Matteo e aveva acquistato il palazzo per le sue nozze con Isabetta Gritti, dalla quale ebbe una sola figlia femmina, Marina, andata sposa, nel 1608, a Vincenzo Grimani. Il palazzo passò così, per eredità, ai figli di Marina con l’obbligo di as­sumere anche il cognome Calergi. I tre figli maschi di Marina, rimasero famosi per la loro bellicosità e ferocia: dopo il crudele assassinio di Francesco Querini Stampalia, essi furono banditi dalla Repubblica e privati dei beni e della nobiltà. Ma le larghe disponibilità della famiglia fecero sì che il provvedimento non sor­tisse alcun effetto pratico: con un offerta di 7350 ducati al Senato per le spese di guerra, furono reintegrati nei beni e nei titoli. Il Senato stesso, però decretò, in quell’occasione, che fosse abbattuta l’ala del palazzo che nel frattempo l’archi­tetto Vincenzo Scamozzi aveva fatto costruire per ospitarvi un meraviglioso giar­dino, e che vi fosse innalzata una colonna d’infamia, ovviamente subito fatta ab­battere dai fratelli. Per questioni dinastiche, il palazzo, nel 1739, passò al pronipote di Marina, ov­vero Niccolò Vendramin, che subito arricchì il palazzo con due statue di Anto­nio Rizzo, Adamo e Eva, e due colonne di diaspro provenienti dal tempio di Ar­temide ad Efeso. I Vendramin erano stati accolti nel patriziato al tempo della guerra con Chioggia, nella seconda metà del 1300, ed erano perciò famiglia “nuovissima“. Andrea (1401-1478), il suo maggior esponente, era un uomo affascinante, ricco, generoso. I suoi com­merci maggiori si svolgevano ad Alessandria d’Egit­to, ma fra l’altro possedeva pure una fabbrica di sapone alla Giudecca il cui marchio era tipicamente levantino: mezzaluna e stelle. La sua fortuna era tale, che egli diceva di «non vardar denari per avere generi a modo suo» e infatti diede a ciascuna della sei figlie una dote di 40.000 ducati, scegliendo i mariti con tale accuratezza che sembra egli dovesse loro la sua ascesa al dogado. L’elezione fu molto contrastata perché lo si riteneva di troppo recente nobiltà.
Protestarono pure dal popolo, brontolando che i Quarantuno potevano far meglio che eleggere un “casaruol“ (mercante di formaggi).
L’anno della sua elezione, il 1476, gli portò anche l’angoscia di veder suo figlio bandito come omicida. Durante l’esilio, il giovane entrò nell’ordine dei Cavalieri di Rodi e, sicuro della impunità che tale abito gli avrebbe conferito, ritornò a Venezia. Uno dei Savi, Alvise Lando, gli fece sapere che se non fosse ritornato immediatamente al confino, lo avrebbe fatto arrestare. Allora il doge, indignato e addolorato, replicò ordinando che tutti coloro che erano stati banditi, se ritrovati a Venezia, avrebbero subito cinque anni di prigione e una enorme multa. Fu chiaro che questa era una ritorsione perché lo stesso fratello del Lando, un alto prelato esiliato per frode, se ne stava tranquillamente in famiglia. Questi dunque dovette lasciare la città in gran fretta e rifu­giarsi presso la Curia a Roma. Tuttavia nei due anni del suo dogado (1476-1478) Andrea diede prova delle sue eccezionali doti nel fronteggiare varie incursioni turche nel Friuli.
È sepolto in San Giovanni e Paolo: la sua arca sepolcrale, opera di Tullio Lombardo, è a sinistra dell’altar maggiore. Ai Vendramin il palazzo restò fino al 1844, quando fu venduto alla principessa Carolina di Borbone, vedova del duca Du Berry, che, dotata di gran­de vitalità, aveva fatto trasportare nella nobile dimora la sua stupenda collezio­ne d’arte e vi aveva fatto costruire un teatro frequentato dal fior fiore del patri­ziato veneziano. Ma, ridotta in gravi difficoltà finanziarie, dovette ricorrere al­l’aiuto del figlio, Enrico conte di Chambord, che saldò i debiti della madre e de­stinò il palazzo alla famiglia Lucchesi Palli. La duchessa Du Berry, sorellastra di Ferdinando II di Napoli e nuora di Carlo X di Francia, tenne in questo palazzo una corte di legittimisti esiliati. Nell’ammezzato del­l’ala sinistra sopra il giardino moriva l’affittuario Richard Wagner nel 1883, come ricorda la lapide murata. Negli anni Trenta del Novecento, l’e­dificio fu acquistato da un ricco finanziere veneziano, Giuseppe Volpi conte di Misurata, che però lo tenne per un breve periodo, dato che già nel 1946 lo ce­dette al Comune di Venezia che lo destinò a sede del Casinò munici­pale, funzione che esplica ancora oggi. Fra le tante opere che adornavano gli in­terni e oggi scomparse, rimangono, nel portego del piano nobile due tele di Ni­colò Bambini, in altre sale un soffitto affrescato da Giambattista Crosato e un bel camino della scuola di Alessandro Vittoria.

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