Palazzo Barbaro a San Vidal Questo solenne edificio, adiacente al palazzo Franchetti, offre il prospetto prin­cipale al Canal Grande ed è un bell’esempio di struttura archiacuta del primo Quat­trocento, costruito sul modello che cominciò a diffondersi a Venezia dopo la ri­strutturazione di Palazzo Ducale. In realtà si tratta di un complesso di due edifi­ci, uno gotico e l’altro, invece, ricco di richiami barocchi, che furono progettati, il primo, da Giovanni Bon nel 1425, e il secondo da Antonio Gaspari nel 1694. L’edificio più antico era stato dapprima di proprietà degli Spiera, in seguito di uno speziale di nome Pietro Franco e poi di tale Nicolò Aldioni, dagli eredi del quale era stato acquistato infine da Zaccaria Barbaro. Il secondo edificio fu incaricato risistemato a partire da una preesistente costruzione e che il Gaspari adeguò in modo che potesse ospitare degnamente la prestigiosa sala da ballo da lui stesso progettata e commissionatagli dai Barbaro. Dal 1499 fu sede dell’ambasciata di Francia, passò poi nel 1514 all’ambasciata ungherese e nel 1524 vi abitò per qualche tempo Isabella d’Este, sorella del duca di Ferrara, in lutto per la morte del marito marchese di Mantova.
Certamente il complesso Bar­baro costituisce un insieme molto suggestivo che rende questo tratto del Canal Grande ancor più prestigioso ed elegante.

Questa importante famiglia, sebbene non abbia mai annoverato un doge fra i suoi componenti, è una delle più antiche casate del patriziato veneziano; nel suo stem­ma reca impresso un tondo rosso in campo bianco e la leggenda narra che que­st’insegna nacque per un episodio legato al capostipite della famiglia, Marco Bar­baro, il quale, trovandosi a combattere, nel 1121, in Terrasanta al seguito del do­ge Domenico Michiel e avendo perduto il vessillo di San Marco caduto in mano nemica, si tolse dalla testa un fazzoletto bianco insanguinato dalle proprie ferite e lo legò su un’asta; con quest’insegna “di fortuna” riuscì eroicamente a ripren­dersi il glorioso vessillo e per tale motivo decise che nello stemma familiare, da quel momento, sarebbe apparso il cércine rosso, proprio a ricordo delle macchie di sangue che impregnavano la sua improvvisata bandiera.
La famiglia patri­zia, oltre che abilissimi diplomatici, annovera molti letterati come quel Giosafat che, recatosi in Russia nel 1436 la percorse in lungo e in largo spingendosi fino al Caucaso ed in Georgia, ritornando a Venezia solo quindici anni dopo. Inviato ambasciatore in Persia, scrisse poi una interessante relazione non solo sui suoi viaggi, ma sugli usi della vita di quel paese e della sua corte: Viaggi fatti da Venezia alla Tana e in Persia. Altro insigne rappresentante della casata fu, agli inizi del XV secolo, Francesco Barbaro, primo della lunga serie di letterati e umanisti che fecero parte di questa famiglia. Fu proprio suo figlio Zaccaria, cavaliere e procuratore, ad acquistare il palazzo gotico che fu poi sempre abitato dal ramo principale di questa dinastia. E furono in seguito Daniele e Marco Antonio, illuminati pronipoti di quell’Er­molao Barbaro che fu nominato dal papa, con grande disappunto della Serenis­sima, patriarca di Aquileia, a farsi costruire la bellissima villa di Maser su pro­getto di Andrea Palladio e affrescata da Paolo Veronese; e furono ancora loro, uo­mini di profonda cultura e di larghe vedute, a salvare il Veronese durante il pro­cesso cui il tribunale del Sant’Uffizio lo aveva sottoposto per il dipinto L’Ulti­ma Cena eseguito per i frati dei Santi Giovanni e Paolo, ritenuto troppo monda­no, trovando un geniale escamotage: suggerirono infatti al pittore di mutare il ti­tolo dell’opera in Convito in casa Levi, togliendo così all’Inquisizione la mate­ria del contendere e salvando il pittore e l’opera. Daniele (1514-1570) fu patriarca eletto di Aquileia e partecipò a quel Concilio di Trento i cui decreti Venezia non volle del tutto rico­noscere, coerente con il suo secolare credo: «prima Veneziani poi Cristiani».

L'edificio più antico presenta la tradizionale facciata tripartita ed elementi arcaici si mescolano a richiami chiaramente quattrocenteschi: al primo piano nobile si osserva la quadrifora con trafori quadrilobati mentre al secondo la polifora ha ca­ratteri più trecenteschi, vuoi per le maggiori dimensioni e vuoi per gli archi in­flessi non trilobati poggianti su alte colonnine decorate da capitelli a foglie gras­se. Notevoli i due portali d’acqua dei quali, quello originale della costruzione che presenta l’arco inflesso, era la testata sul Canal Grande di un portico, oggi chiu­so, che correva lungo il rio dell’Orso, mentre quello rinascimentale è stato più volte modificato nel corso dei secoli.
L'edifìcio più recente, che, come già detto, rappresenta il risultato della ricostruzione di una preesistente fabbrica, fu arricchito dal Gaspari con elementi che gli conferirono una grande magnificenza, soprattutto negli interni i quali presentano stuc­chi sontuosi a far da cornice a prestigiose tele fra le quali quelle di Sebastiano Ricci e Giambattista Piazzetta; notevole e raro il bel pavimento a mosaico “alla veneziana” della sala da pranzo nel quale fu utilizzato anche un materiale molto prezioso come la madreperla. Veramente ricca ed elegante anche la biblioteca con soffitto a carena ribassata, risalente al XVIII secolo, decorata con stucchi policro­mi e amorini, con pareti nelle quali si aprono, alternativamente, ora librerie aper­te e ora grandi finestre.
Dopo l’estinzione della famiglia Barbaro il palazzo fu acquistato nel 1885 dal raf­finato americano Daniel Curtis che vi si stabilì con la moglie e che seppe ripor­tare la dimora agli antichi fasti, ospitandovi artisti del calibro di Henry James, John Sargent e Claude Monet; nel suo romanzo Le ali della Colomba, James de­scrive con grande efficacia e poesia proprio le atmosfere delle sale di Palazzo Bar­baro, quelle stesse dove ancora vivono i discendenti dei Curtis che hanno sapu­to conservare questo palazzo con amore e sensibilità.