Palazzo Dolfin Manin Bel palazzo rinascimentale, costruito dal 1536 al 1540 su progetto di Jacopo Sansovino. Adattando lo schema dei palazzi romani alla particolare situazione veneziana, l’architetto ha ideato una struttura imper­niata su un cortile centrale, ingrigliando la tipica fac­ciata a trittico - con le aperture addensate al centro - in un sistema rigoroso di ordini classici. Al pianter­reno un poderoso portico ad arcate, con lesene dori­che, si protende sulla fondamenta; mentre ai due piani superiori, sottolineati da poggioli continui, si susseguono semicolonne ioniche e composite. Il fre­gio sotto il cornicione è decorato con teste leonine.
Nel 1787 il palazzo fu acquistato da Lodovico Manin, che incaricò l’architetto Gianantonio Selva di ristrutturarne gli interni in stile neoclassico, tra­sformandolo in una sontuosa dimora, degna della sua dignità dogale. Ora è sede della Banca d’Italia che recentemente ne ha finanziato il restauro.

La ricchissima famiglia dei Manin era originaria del Friuli dove aveva possedimenti e autorità. Nobi­litata nel XIV secolo da Edoardo III d’Inghilterra, entrò a far parte del patriziato "per soldo" nel 1651, al tempo della disastrosa guerra di Candia. L’ele­zione a doge di Lodovico, nel 1789, fu certo dovuta più alla sua favolosa ricchezza (aveva rendite supe­riori ai 30.000 ducati!) che alle sue doti politiche.
Quel giorno Pietro Gradenigo, incollerito e ama­reggiato, aveva gridato in Senato: «Han fatto doge un furlan (friulano), la Repubblica è morta»: ed ebbe ragione. Lodovico Manin era un essere mite, indeciso, malaticcio, il cui biglietto da visita non recava il virile leone di San Marco, bensì un Adone nudo, addormentato all’ombra di una quercia. La situazione drammatica del 12 maggio 1797 avrebbe richiesto l’energia ed il coraggio antichi per respin­gere l’ultimatum di Napoleone, ma fu proprio Manin ad esortare quasi piangendo il Senato ad accettare la sottomissione: Ippolito Nievo, in una pagina di Le confessioni di un italiano scrisse del­l’evento: «In quel silenzio triste, il Doge si alzò in piedi, pallido e tremante davanti a quel Consiglio Sovrano del quale egli era rappresentante, ed osò proporre un atto di codardia senza precedenti». I patrizi proposero di mandare il governo a Zara, al sicuro, e mantenere l’indipendenza. Le navi erano pronte per salpare. Durante la lunga discussione, i fedeli schiavoni si imbarcarono e spararono una salva di fucileria come ultimo saluto alla città. Ciò fece credere al Senato che ormai i francesi fossero alle porte e frettolosamente esso acconsentì alla resa. Manin si svestì delle insegne dogali, si tolse la ber­retta bianca e la diede al servo dicendo: «Questa non mi occorre più. Stasera non siamo neppure sicuri di dormir nel nostro letto». La popolazione si ribellò a tale decisione del Senato. Quattro giorni dopo i sol­dati napoleonici, con l’etichetta di liberatori, entra­vano in laguna ad occupare Venezia e a depredarla delle sue ricchezze. Lodovico Manin morì nel 1802, dopo cinque anni di vita miserabile e segregata, esposto al disprezzo ed agli insulti. Le sue ceneri sono custodite in una cappella laterale di Santa Maria degli Scalzi: una semplice e disadorna scritta sulla lastra tombale ricorda: "Cineres Manini". Manin aveva sposato Elisabetta Grimani, la quale non l’aveva voluto seguire nell’appartamento ducale, e a tal proposito egli scrisse ad un amico: «...In mezzo a tanta esultanza devo soffrire un’amarezza che mi cagiona la mia dama moglie che, per una stra­vaganza donnesca, guarda di mal occhio essere Dogaressa... Non ha voluto intervenire ad alcun spettacolo; si è nascosta alcuni dicono a Murano, altri in casa del suo agente...».
Il nome dei Manin, ironicamente, fu in certo modo redento dal patriota Daniele, che aveva vinco­li, ma non di sangue con questa famiglia. Infatti si possono trovare lungo i secoli molti nomi aristocra­tici fra gente del popolo: ciò fu dovuto alla pratica del patriziato di estendere il proprio nome a coloro che, essendo di religione diversa, decidevano per sé e per i figli di accettare il battesimo. Il nobile si faceva "padrino di San Giovanni" e dava col suo nome protezione ed aiuto. Il fratello di Lodovico era stato padrino dell’israelita Medina, il quale secondo l’uso assunse il nome di Manin. Ed è in campo Manin che sorge il monumento a Daniele (1804- 1857), il patriota che il 22 marzo 1848, mentre in un discorso popolare ricordava le glorie di Venezia, aveva lanciato il grido storico di ogni veneziano: «Viva la Repubblica, viva la Libertà, viva San Mar­co».